Ho vissuto a Parigi, per un certo tempo. In città mi oriento facilmente: la mia mappa mentale è costellata di punti di riferimento. Camminando, seguo a memoria traiettorie rese indelebili dagli amori, dalle amicizie, dagli interessi culturali o dalle necessità pratiche.
Una di queste traiettorie conduce alla Cité de la musique e l’ho percorsa pochi giorni fa, per recarmi alla giornata-evento “Le bœuf sur le toit” dedicata alla Parigi anni ’20 (del Novecento). Le stagioni concertistiche della Cité de la musique sono uno degli esempi migliori – a mia conoscenza – di una programmazione illuminata e creativa, improntata a un eclettismo intelligente e anti-provinciale. Sfogliando il programma della Cité mi ricordo che la musica non è un contenitore stagno, che a sua volta contiene altri contenitori stagni, bensì una pellicola osmotica ed elastica. E quindi, via i confini tra le discipline artistiche, tra i frattalici generi e sotto-generi, e soprattutto tra “i pubblici”! I concerti alla Cité si rivolgono a un pubblico declinato al singolare: certamente vastissimo e variegato, ma potenzialmente unificabile (nel nome della curiosità e dell’apertura culturale)… e sicuramente vivo. All’entrata dell’edificio, alcuni studenti mi riempiono le mani di volantini e riviste come “La Terrasse”, che parla di musica, ma anche di teatro e danza. Sfoglio anche questa rivista e rimpiango di aver già prenotato l’aereo per il ritorno.
Per un appassionato di musica francese del Novecento, assistere alla giornata “Le bœuf sur le toit” è come farsi una scorpacciata di macarons di Ladurée guardando un film di Tati: un raffinato miscuglio di edonismo e poesia. L’ideatore dell’evento è il pianista Alexandre Tharaud, parigino smilzo e glabro dagli occhi cerulei e dal tocco cristallino, Re Mida della discografia francese degli ultimi anni. Tharaud è uno di quei miracoli che l’esprit francese dispensa con parsimonia: ha inciso (tra gli altri) Rameau e Satie, Couperin e Ravel, Bach e Kagel; suona regolarmente autori viventi, ama il jazz e le canzoni, compone, ha la passione della fotografia e recentemente ha recitato la parte di se stesso nel film “Amour” di Michael Haneke, Palma d’Oro al Festival di Cannes 2012.
Con l’incoscienza tipica dei bambini (o dei grandi… artisti), Tharaud ha suonato in ben quattro concerti nel corso della giornata: il primo alle 11, l’ultimo alle 21. Ad accompagnarlo in queste giocose incursioni nella Parigi post-bellica, un altro pianista, un’orchestra, un attore, due cantanti, un suonatore di banjo e percussioni. E ancora, come eventi collaterali, un’esposizione, vari recital dedicati alle canzoni di quegli “anni folli”, due tavole rotonde di carattere musicologico, un film documentario sul Gruppo dei Sei (con preziose interviste d’epoca), e una successione di 18 mini-concerti jazz – tenuti da studenti del conservatorio nel café del complesso architettonico.
Al concerto delle 21, definito ironicamente “Concert salade”, un pubblico di tutte le età, attento, divertito, emozionato. Tharaud fa l’equilibrista tra Milhaud, Cole Porter, canzonette esilaranti come “Mon anisette” e l’op. 25 di Schönberg (usata dialetticamente come contrappunto ironico, ma eseguita impeccabilmente). E poi, a un tratto, tutti gli sguardi convergono sulle magiche acrobazie di quattro dita inguainate in ditali d’argento, che tamburellano su una mensola di legno: l’enorme auditorium scompare e mi ritrovo solo, nel cabaret del pianista Tharaud, incantato a seguire con gli occhi una coppia di minuscoli ballerini di tip-tap.
Teatro, musica, poesia, compenetrazione di categorie estetiche ‘alte’ e ‘basse’. So che a Parigi tornerò.